Tra le tante declinazioni del narcisismo che intride la nostra società, si innescano dei meccanismi di perversione nel rapporto arte/artista/spettatore. Il canone di bello che ci viene tramandato nel contesto visivo e nelle forme proprie archetipiche che ci appartengono, gode di uno sfasamento nei termini di tempo e spazio. Lo “storicizzato”, il “digerito”, va ad una velocità, il contemporaneo che si macina sotto in nostri piedi, ad una velocità maggiore. La nostra routine, così lontana dalla riflessione estetica nel quotidiano pratico, ci allontana maggiormente dall’arte che adesso ci consuma e sperimenta. Protetti dalla nostra fortezza di ego definiamo l’arte contemporanea banale, brutta, fattibile da chiunque, pretendiamo che sia creata ad uso e consumo di un senso del bello anacronistico, di un bello che soddisfi un bisogno da fast food dell’estetica.
Ma l’arte è cambiata. Gli artisti sono diversi. Gli artisti sono prima di tutto persone. Il pregiudizio verso il contemporaneo è la manifestazione più cristallina di una cultura di chiusura, di egocentrismo e paura delle relazione umane. Viviamo in un’epoca di massima chiusura nel paradosso della globalizzazione.
Faccio questa considerazione dopo aver sentito per la n-volta dire a qualcuno: ma questa non è Arte! Lo potevo fare anche io!
L’Arte adesso ci chiede di rallentare. L’Artista contemporaneo non crea un’opera bella, ma condivide un frammento della sua vita. Per questo è difficile comprendere un’opera passandole davanti veloce, perché l’arte adesso vuole essere ascoltata. E per saper ascoltare dobbiamo fermarci ed essere nel presente, dobbiamo essere disposti a sospendere il pregiudizio, deporre le armi della fretta e incontrare il nuovo. Scrivo tutto questo pensando in particolare al lavoro di Marina Abramovic. Sto leggendo la sua autobiografia, Attraversare i muri. Di lei ho sentito dire: non mi piace il suo lavoro, è una venduta collusa. Sono stanca di tanta superficialità. Leggere questo suo libro è come sedermi e ascoltare, conoscere una vita, le sue potenzialità, la meraviglia della creazione nei termini di limiti superati, di slancio, di corsa, di affanno, di relazioni umane. È un racconto epico, un’epopea. Che mi ricorda il potenziale della mia vita, di ciò che posso Essere. Ecco la sua arte è intima, sfacciata, sincera, ruvida. Immensamente femminile e così sincera da risultare disturbante. Per fortuna. Perché lo sghembo, lo storto, la piega, innescano la riflessione. E questa se coltivata lavora in silenzio nel profondo della nostra vita, e come una lontana eco manifesta poi altri frutti. Un contagio generoso, che lei innesca a nostro vantaggio. La performance art non solo vive nel qui ed ora, nella relazione con l’altro, ma nel tempo lavora in silenzio e continua a vivere in modo comunitario e creativo nel nostro quotidiano. È un contagio di bellezza e verità, quella bellezza che è tale perché aderente con la vita.
L’arte di Marina ci costringe a rallentare, nel paradosso dell’effimero, ci costringe a sentire, a domandarci chi lei sei, a conoscere, ad aprirci. E questo è un tabù per la nostra cultura. Aprire la porta di casa e far entrare uno sconosciuto, farlo sedere alla nostra tavola ed ascoltarlo. Di vero ascolto. Lei è l’estraneo, noi la paura. Basta aprire la porta, è chiedere: Chi sei? Ti ascolto. Poi una volta avvenuto l’incontro potremo sentire un vero sentimento di simpatia o antipatia, come normalmente succede nelle relazioni, ma solo a quelle a cui abbiamo dedicato del tempo.
Io amo sfacciatamente il suo lavoro, il suo coraggio, la vita densa che interpreta, la schiettezza con cui si racconta, e conto i giorni che ci separano dalla sua prossima mostra a Firenze, che inaugurerà il 21 settembre a Palazzo Strozzi. Confesso che l’aspettativa spesso mi ha giocato brutti scherzi nella vita, ma sono pronta anche alla delusione, a patto di saperla vivere pienamente. Il senso è diventare una antenna capace di captare un messaggio, rendersi un trasmettitore, disposto ad accogliere. Alla fine, come in ogni aspetto della vita, la nostra capacità individuale di creare valore è nelle nostre mani.
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