A voi un testo di Ranieri Polese
Quello tra cinema e canzone è, in Italia, un legame forte, molto forte. Già negli anni 30, “Parlami d’amore Mariù” regala a “Gli uomini che mascalzoni” il suo momento memorabile. Addirittura, con “Mamma”, anno fatale 1940, si costruisce il film apposta per la canzone (e per Beniamino Gigli). Del resto, oltre a Gigli, tenori come Tito Schipa e Ferruccio Tagliavini amavano apparire sul grande schermo, prima e dopo la guerra, e non con pezzi d’opera ma con canzoni. Anche il melodramma, però, va forte, soprattutto negli anni 50, quando al botteghino trionfavano i film-opera di Carmine Gallone (“Rigoletto”, “Il trovatore”, e poi “Puccini”, “Casa Ricordi”; “Giuseppe Verdi”, 1953, sarà invece realizzato da Raffaello Matarazzo; nello stesso anno Sophia Loren è Aida nel film di Clemente Fracassi, ma la voce è quella di Renata Tebaldi), senza dimenticare Visconti, “Senso”, con “Di quella pira” in apertura del film (ma il miglior cammeo operistico di Visconti è “Di Provenza il mare e il suol” cantato in “Ossessione”). Con gli anni ’40, finita la guerra, la canzone dilaga, per esempio con le antologie di Domenico Paolella (“Canzoni di mezzo secolo”, 1952), Camillo Mastrocinque (“Tarantella napoletana”, 1953), Ettore Giannini (“Carosello napoletano”, 1954). Ma ci sono anche i cantanti-attori, come Tajoli, Villa e Teddy Reno che compaiono in numerose pellicole. Oppure Roberto Murolo che canta nei meló estremi di Raffaello Matarazzo. Ci sono già film legati al titolo (o al cantante) di una canzone di successo (es. “Trieste mia” con Tajoli, “Solo per te, Lucia” con Villa, “Anema e core” con il tenore Ferruccio Tagliavini), ma è solo sul crinale fra i 50 e i 60 che fiorisce la breve stagione dei Musicarelli (fra il 1959 e il 1975 sono oltre 70), che avrà la sua apoteosi nella trilogia di Gianni Morandi, “In ginocchio da te” (1964), “Non son degno di te” e “Se non avessi più te” (entrambi 1965) diretta da Ettore Maria Fizzarotti. Il nome-etichetta “Musicarello”, del resto, appare solo allora.
Storicamente, il Musicarello appartiene all’età del nuovo benessere, al miracolo economico, ai giovani che diventano acquirenti, al boom dell’industria discografica. Si iscrive nel periodo in cui il cinema italiano, accanto ai venerati maestri e ai grandi autori di commedie – Fellini, Visconti, Antonioni, e per la commedia Risi, Monicelli, Comencini, Germi – registra il trionfo dei generi, del cinema basso ma di alto consumo. Film mitologici che i francesi ribattezzarono Pepla, il western che gli americani chiameranno Spaghetti Western, i rifacimenti-parodie con Ciccio e Franco (da “I due figli del leopardo” fino a “Ultimo tango a Zagarolo”), gli 007 fatti in casa, l’horror, i polizieschi. E poi, appunto, ci sono le pellicole legate a canzoni & cantanti. Tutti, ma proprio tutti i cantanti vi partecipano, da Mina ad Al Bano, da Caterina Caselli a Bobby Solo, da Little Tony a Modugno, da Rita Pavone a Mario Tessuto, in un cortocircuito fra hit parade e box office lungo un periplo che comprende evidentemente anche i Festival, da Sanremo al Cantagiro al Festivalbar, ivi compresi Napoli, Castrocaro, Ariccia, Venezia ecc ecc. È qui che si produce la nuova religione laica delle star, che se altrove – Hollywood ma anche la Francia – riservava il culto solo ai divi del cinema, in Italia sarà dedicata a Mina, Modugno, Celentano, Al Bano, Little Tony, Patty Pravo, Massimo Ranieri. Sono loro i nuovi divi che prendono il posto delle maggiorate anni 50 e dei pochi maschi promossi a oggetto del desiderio (Amedeo Nazzari e poi Mastroianni).
(Per inciso, non va dimenticato che in questo Olimpo a 45 giri sono del tutto assenti i cantautori, Paoli e Tenco per intendersi; la popolarità di massa per i cantautori comincerà soltanto con Lucio Battisti, che peraltro, come prima Modugno e Umberto Bindi, scriveva la musica ma non le parole, ed è difficile stabilire se per Battisti il successo dilagante sia più dovuto alla musica o ai testi di Mogol. E in ogni caso, Battisti non farà mai film).
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La storia dei Musicarelli non comincia con i film-canzone. Nel triennio 1959-62, Lucio Fulci e Piero Vivarelli cavalcano la timida rivolta generazionale e, orecchiando un po’ i rock-movies americani (“Rock Around the Clock”, 1956), e i primi film con Elvis Presley (“Jailhouse Rock”, 1957, che in Italia fu titolato “Il delinquente del rock’n’roll”), realizzano “I ragazzi del juke-box”, 1959, e “Urlatori alla sbarra”, 1960, Fulci; “San Remo, la grande sfida”, 1960, e “Io bacio…tu baci”, 1961, Vivarelli. Adriano Celentano compare in tutti e quattro, Mina in due. Sono loro, del resto, i capofila della nuova musica all’americana. Già i titoli contengono un modello di ribellione giovanile, timido appunto e solo un riflesso della protesta della gioventù bruciata made in Usa, o, subito dopo, dei Mods & Rockers inglesi. Però di una contrapposizione parlavano, quella tra Urlatori e Melodici, scoprendo una lacerazione più familiare che sociale, giovani contro vecchi (definiti con l’orrido nomignolo di Matusa), e mostrando che cioè l’unanimità dei gusti musicali era finita. In un sondaggio promosso da “Sorrisi e canzoni” nel 1960, strutturato come una campagna elettorale, il Movimento juke-boxista (Mina, Celentano, Tony Dallara, Betty Curtis, Peppino Di Capri) ottiene il 21,53 per cento dei voti; al secondo posto si piazza, con il 20,28 per cento, il Partito Musical-moderato (Flo Sandon’s, Carla Boni); distaccato, al terzo posto troviamo il Partito della Restaurazione Melodica (Nilla Pizzi, Claudio Villa, Tonina Torrielli), con una percentuale del 15,74. Ma è del tutto fuori luogo vedere nel conflitto tra Celentano e Claudio Villa una prefigurazione del Sessantotto. Del resto, le canzoni subito successive dei gruppi Beat – Rokes, Nomadi, Giganti – che sembravano riprendere temi della contestazione americana, erano generiche e non proprio rivoluzionarie, in realtà veicoli di un pacifismo all’acqua di rose (“Mettete dei fiori nei vostri cannoni”), di una protesta anti-nucleare molto buonista (“Noi non ci saremo”), di una rivendicazione del diritto a portare i capelli lunghi fin troppo supplichevole (“Che colpa abbiamo noi”). Anche l’anti-Vietnam versione Gianni Morandi (“C’era un ragazzo che come me…”) rischiava l’ecumenismo di maniera di uno che, appunto, “amava i Beatles e i Rolling Stones”.
C’era, è vero, un filone di canti politici – Cantacronache, Nuovo Canzoniere Italiano, i Dischi del Sole – di gruppi che ebbero la loro consacrazione negli spettacoli del Festival di Spoleto “Bella ciao”, 1964, e “Ci ragiono e canto”, 1966. Comprendeva, quel filone impegnato, un po’ di tutto: la riscoperta del folkore dialettale, la ripresa dei canti di lavoro e di lotta di braccianti e operai, le ballate contro i governi Dc che avevano mandato la polizia a sparare contro i braccianti e gli operai (“La zolfara”, “Per i morti di Reggio Emilia”), canzoni contro la guerra (“Dove vola l’avvoltoio” su testo di Italo Calvino). C’erano anche dure requisitorie contro i misfatti del colonialismo (“Per i morti di Brazzaville”: “Che me ne frega allora se un bimbo bianco piange sulla tomba del padre ucciso dai ribelli”) e gli sfottò della morale piccolo borghese (“di famiglie cadenti come foglie, di figlie senza voglie, di voglie senza sbagli”: “Quella cosa in Lombardia”, versi di Franco Fortini). In quegli anni, del resto, Laura Betti proponeva un repertorio da cabaret di rottura, con testi dalle firme assai illustri (Pasolini, Fortini, Arbasino), ma erano canzoni per intellettuali, non certo destinate al consumo di massa. E anche i canti politici restavano patrimonio di un pubblico schierato, motivi e suoni che nessun jukebox avrebbe incluso nella sua playlist, rigorosamente proibiti dalla Rai. E, inevitabilmente, fuori dal repertorio di canzoni scelte dai Musicarelli. (Unica, tardiva eccezione, “I giorni cantati”, 1979, di Paolo Pietrangeli, con Guccini e Giovanna Marini, dove si canta “Contessa”).
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I Musicarelli che ispirano la rielaborazione artistica di Gianni Dorigo sono, invece, essenzialmente film di conciliazione fra un mondo di ieri conservatore, perbenista ma non aggressivo, e una gioventù che sembra un po’ fuori regola ma in realtà (vedi Morandi) aspira al matrimonio, fa il servizio militare, vuole lavorare anche se in campi e modi non previsti dai genitori tradizionalisti. Film essenzialmente democristiani, di un sistema che tollera le diversità – per altro mai radicali – perché sa che prima o poi si lasceranno inglobare. Film, soprattutto, in cui si celebra un racconto di stile e contenuti fotoromanzeschi, ma in versione riveduta e corretta. Com’è noto il fotoromanzo, “Grand Hotel”, “Sogno” e “Bolero”, dalla fine della guerra dispensava agli italiani la più vasta riserva di narrazioni. Dove, non a caso, uno dei divi più amati era stato un cantante, Achille Togliani. Al fotoromanzo come vasto fenomeno di cultura popolar-nazionale, destinato ai ceti sociali più bassi, si era interessato il cinema, nel documentario di un giovane Michelangelo Antonioni (“L’amorosa menzogna”, 1949) prima, nella commedia del giovane Fellini, “Lo sceicco bianco”, 1952, poi. Nei musicarelli, però, ogni intenzione critica è assente; e ancor di più il tentativo di analisi sociologica. Anche quando in qualche modo si richiamano a episodi di cronaca (lo “scandalo” del giornale studentesco “La zanzara”, che aveva osato proporre un sondaggio sulla vita sessuale dei giovani, 1966: i film che echeggiano quella polemica, “Rita la zanzara”, 1966, e “Non stuzzicate la zanzara”, 1967, prendono solo un pallido spunto dai fatti reali per imbastire un plot che prevede la pace ritrovata tra vecchi e giovani e magari il lieto fine di un romanzetto d’amore), la consegna del genere è quella di non urtare nessuno. E invece di ribadire l’importanza dei sentimenti capaci, loro sì, di comporre ogni dissidio.
A differenza dei fotoromanzi tradizionali, però, i Musicarelli danno grande spazio ad attori e intermezzi comici: Nino Taranto, per esempio, compare in ben 19 musicarelli. Come lui, figurano Mario Carotenuto, Erminio Macario, Dolores Palumbo, Carlo Dapporto, Ugo Tognazzi e Raimondo Vianello, Ave Ninchi, Carlo Croccolo. Ai comici spetta di regola la parte dei matusa, che non capiscono, si oppongono, intrigano per far fallire l’amore dei giovani ribelli. (C’è anche il commendatore affarista, quasi sempre Mario Carotenuto, che vuole sfruttare l’ingenuo cantante). Ma proprio perché fanno ridere sono lì a farci capire che la battaglia generazionale è solo per finta, che nessuno ci crede, che in fondo se la musica cambia un poco è perché nulla cambi. Paragonati alle commedie italiane dello stesso periodo (Germi, Monicelli, Comencini, Risi), i Musicarelli hanno poco o niente in comune. Gli manca la vera, aspra critica sociale di film come “Una vita difficile”, “Divorzio all’italiana”, “Lo scopone scientifico”. Anticipano, semmai, certi sceneggiati televisivi di anni vicini a noi, tipo “Un medico in famiglia” o “Don Matteo”, il cui primo comandamento è quello di predicare l’armonia, anche quando i giovani, spesso incamminati su una cattiva strada, sembrerebbero voler rompere e spaccare tutto.
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Confortati da un successo costante almeno per tutti gli anni Sessanta, i Musicarelli ci trasportano in un altrove fittizio come già facevano i mitologici e i western: qui è il quadretto di famiglie e generazioni serene, il cui unico pensiero è l’amore, mai comunque un amore in guerra contro divieti e tabù, ma sempre qualcosa che si può vivere sotto gli occhi del babbo e della mamma. Si aggiornava, così, il fotoromanzo – che pure si era spinto a parlare di drammi sociali, di figli di nessuno, di ragazze disonorate, di ingiustizie sociali, di innocenti sbattuti in galera (e il cinema lo aveva seguito, con Matarazzo o con i grandi film di Silvana Mangano, “Riso amaro”, “Anna”, “Mambo”). I Musicarelli, invece, ci propongono un genere di consumo che prefigura il Pop, totalmente libero dalle eredità del neorealismo, spesso contento dello stato delle cose, in una visione totalizzante e omologata della vita sognata della piccola borghesia. In realtà, almeno fino al 1967-68, quei film avevano lo scopo di supportare il divismo dei nostri cantanti. Il richiamo del cantante di grido funzionava bene al botteghino, ma il successo del film consolidava la fortuna del cantante. Divismo povero, certo, rispetto alle star hollywoodiane ma anche alla nuova generazione francese (Bardot, Delon, Belmondo); uno splendore piccolo piccolo, che però mobilitava lungo le strade del Cantagiro folle impazzite e devote. Anche per i nostri cantanti-divi, però, vigevano le rigide leggi di uno Star System, casareccio quanto si vuole, ma pur sempre implacabile. La vita privata, per esempio, doveva essere impeccabile e senza scandali: ne sa qualcosa Mina che nel 1963 ha un figlio dall’attore Corrado Pani, sposato, e per questo viene additata come pubblica peccatrice ed esclusa dagli schermi della Rai. Altrettanto umiliante era anche il rito dei soprannomi, a cui le soprattutto le donne dovevano sottostare: Mina, così, diventò la Tigre di Cremona; Milva, la Pantera di Goro; Tonina Torrielli, la Caramellaia di Novi; Iva Zanicchi, l’Aquila di Ligonchio; Rita Pavone, Pel di carota; Caterina Caselli, Casco d’oro; Patty Pravo, la Ragazza del Piper. Convenzioni retrograde e provinciali, pienamente ossequiate nei Musicarelli, che compongono – e forse è qui la grandezza di questo filone – un quadro di genere perfetto, un ideale/irreale mondo borghese piccolo piccolo al riparo da conflitti, crisi, catastrofi. Una sorta quasi di Telefoni bianchi aggiornata, ma come quella stagione destinata a crollare appena il mondo reale, brutalmente, si fosse fatto sentire. Se le commedie degli anni Trenta furono spazzate via dalla guerra, i Musicarelli furono travolti dal Sessantotto (forse l’immaginazione non prese il potere, di certo fece un gran falò di invecchiati stereotipi e povere vanità). Ma non solo. Fu anche (soprattutto?) l’egemonia musicale anglosassone inaugurata dai Beatles a rendere anacronistici, improponibili quei film e quei riti nazional-popolari. Non a caso, gli anni Settanta avrebbero segnato l’eclisse di Sanremo (dal 1973 al 1980, la Rai trasmise solo l’ultima serata). Perciò, tornare oggi ai Musicarelli rivisitati nei quadri di Gianni Dorigo ha il sapore della scoperta di un reperto d’epoca, dell’esposizione di manufatti di una civiltà sepolta. Una scelta che magari s’inserisce in quel fenomeno che gli inglesi chiamano “Retromania”, ossia la prevalenza nei consumi musicali di tutto ciò che è stato fatto scritto cantato non dopo gli anni Ottanta (anche perché quello che è venuto dopo – Boys-Bands, pallide scopiazzature dei Beatles, effimeri revival del blues-rock – si è rivelato di qualità scadentissima, miseri prodotti di un marketing onnipotente e senza gusto). Ma che certo, per noi italiani, significa anche un riaprire capitoli dimenticati, che i recenti, presuntuosi storici della canzone, figli del pensiero unico che vede solo i Cantautori (e li fregia dell’enfatico nome di Poeti), colpevolmente non trattano.
APPENDICE
1) Il cinema non musicale, in quegli anni, scopre che alcuni cantanti funzionano bene come interpreti. A volte per un solo film, è il caso di Luigi Tenco (“La cuccagna”, 1962, Luciano Salce) e di Lucio Dalla (“I sovversivi”, 1967, Paolo e Vittorio Taviani). Ma ci sono anche Massimo Ranieri (“Metello”, 1970, e “Bubù”, 1971, entrambi di Mauro Bolognini), Celentano (“Serafino”, 1968, Pietro Germi; “Le Cinque Giornate”, 1973, Dario Argento), Don Backy (“I fratelli Cervi”, 1967, Gianni Puccini; “Banditi a Milano”, 1968, Carlo Lizzani). Ad alcuni, come Adriano Celentano, sarebbe toccata in sorte una carriera cinematografica indipendente, da regista (“Yuppi-du” e “Joan Lui”) e da attore (“Ecco noi per esempio”, “Innamorato pazzo” e tanti, troppi altri). Anche Johnny Dorelli interpreta varie commedie fra i Settanta e gli Ottanta. Capofila della Scuola milanese, Enzo Jannacci, dopo un musicarello (“Quando dico che ti amo”), viene scelto da Monicelli (“Le coppie”), Ferreri (“L’udienza”), Scola (“Il mondo nuovo”). Singolare il caso di Carmen Villani, che diventa protagonista di una folta filmografia soft-porno (“La supplente”, “Lingua di luna”).
2) Ufficialmente estinto con la seconda metà degli anni Settanta, il filone dei Musicarelli sopravvive in alcuni epigoni. Così, nel 1979, Carlo Vanzina firma “Figlio delle stelle” da e con Alan Sorrenti. Subito dopo parte l’operazione “Sapore di mare”, che se da una parte prende il titolo della celebre canzone di Gino Paoli, in realtà funziona come un jukebox in versione nostalgia: i primi due film,1982 e 1983 (ma il numero due è firmato da Bruno Cortini), ci riportano nella Versilia anni Sessanta, brevi amori sull’onda di Mina, Ornella Vanoni, Edoardo Vianello, RitaPavone e Fred Bongusto. Nel terzo, “Sapore di te” (regia, nuovamente, di Carlo Vanzina), sono di scena gli anni Ottanta, con appropriata colonna sonora (Ricchi e Poveri, Fabio Concato, Fiordaliso). Gli anni Ottanta si raccontano (e ascoltano) anche in “Notte prima degli esami”, 2006, di Fausto Brizzi: il titolo, ovviamente, è quella della canzone di Antonello Venditti, ma fra le hit figurano anche Rettore (“Lamette”) e Cecchetto (“Gioca-jouer”). Da questo film fortunato (in Francia girano un remake, la Rai nel 2011 produce una miniserie) scaturisce l’immancabile sequel, “Notte prima degli esami – Oggi”, ancora regia di Brizzi.
3) Un filone nel filone è quello che prende origine dalle canzoni napoletane, un fenomeno che comunque anticipava i vari Fizzarotti, Fulci e Vivarelli. Negli anni Cinquanta si filmano “Guaglione”, “Cerasella”, “Maruzzella” (“Torna a Surriento” è addirittura del 1945). Spesso si tratta di incursioni nel repertorio partenopeo perpetrate da registi e attori non napoletani come Mario Girotti non ancora Terence Hill, Claudia Mori, Marisa Allasio. Ma è a Napoli che fiorisce la tradizione della Sceneggiata, rielaborazione teatrale di una canzone. A operare il passaggio dal teatro al cinema è Mario Merola che, dopo una serie di poliziotteschi napoletani (“Napoli, serenata calibro 9” di Alfonso Brescia), interpreta per il grande schermo sceneggiate come “Zappatore” e “Carcerato” ma anche film-canzone come “Lacrime napulitane” e “Guapparia”. Suo erede naturale, Nino D’Angelo comincia la sua carrieta di cantante-attore proprio con Merola, poi decolla e con “Un jeans e una maglietta”, 1983, diventa il divo numero uno del genere neomelodico. Fino all’incontro con la regista Roberta Torre (è sua la musica per “Tano da morire”) e con Goffredo Fofi che lo riscattano dall’ipoteca di cantante delle bancarelle di Forcella e lo promuovono portabandiera di una nuova coscienza meridionale.
4) Per una tardiva, ma eclatante rivisitazione dei Musicarelli (e del santuario di Sanremo), nel 1992 la banda del Bagaglino – Pier Francesco Pingitore sceneggiatore e regista, Pippo Franco protagonista – si produce in “Gole ruggenti”, divertente e crudelissima analisi del Sistema Sanremo, che critici prevenuti e poco preparati bollarono come esempio di “comicità grossolana”.
5) Un discorso a parte meriterebbe la presenza delle canzoni nella Commedia italia degli anni Sessanta-Settanta. Risi e Monicelli, per esempio, propongono in ogni loro film una playlist imponente (e non solo di motivi italiani). L’ascolto della canzone in voga in quel momento contribuisce a fissare il qui e l’ora del film, certifica la sua attualità. Ma non solo. Dino Risi usa le canzoni come elemento portante del racconto, dato caratterizzante del personaggio. E nei suoi film ci dà anche dei piccoli, preziosi saggi di interpretazione: Gassman nel “Sorpasso” che commenta “Vecchio frac” di Modugno in termini di alienazione; Manfredi e Pamela Tiffin che tentano una esegesi del messaggio contenuto ne “L’immensità”. Essendo la canzone in quegli anni un fatto culturale assolutamente pervasivo, anche registi di opere maggiori e impegnate le usano. Luchino Visconti, per esempio, in “Rocco e i suoi fratelli” cita “Tintarella di Luna” di Mina e “Il mare” di Sergio Bruni; anni dopo, in “Gruppo di famiglia in un interno”, ascolteremo la voce prepotente di Iva Zanicchi: “La mia solitudine sei tu, la mia rabbia vera sei sempre tu”. E altrettanto indimenticabile è “Il barattolo” di Gianni Meccia (“Rotola, rotola, strada facendo rotola”) scelto da Florestano Vancini per “La lunga notte del ’43”, a significare che nessuno paga per i misfatti di ieri, che gli allora fascistissimi gerarchi come Gino Cervi, responsabile dell’eccidio, possono ormai dormire sonni tranquilli.
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